partecipo al progetto

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sabato 9 giugno 2007

cultura materiale, # 3, 4


cavallino in terracotta di sejnane, nord-ovest della tunisia, cotta in forno trogloditico e generalmente prodotta da donne.

kholkhal, cavigliera da piede per le donne sposate del sud della Tunisia, si porta in coppia.











Previsioni del tempo: per il weekend è previsto un lavoro di nebuloso bricollage. Si sezionano, segmentano, zigzagano, limano, scontornano, sovrappongono, assemblano, piallano, incastrano concetti.Visibilità cielo: nulla. Schiarite previste per domenica sera.

venerdì 8 giugno 2007

murale, jadaryia

















Ecco il tuo nome,
disse una donna, e scomparve nel cunicolo sinuoso...

(Hadha hua ismuka
qalt imratun
u ghabat fi -l marra al-lulbyya
)

Vedo il cielo laggiù, a portata di mano,
e l'ala di una colomba bianca mi porta
a un'altra infanzia. Non sogno
di sognare. Ogni cosa è reale.

(Ara al-masa' hunaka fi mutanauali al-aidi
u ihmluna jnahu hmama bi sa'an
sauba tufula ukhra ulman ahlum ba'ni
kuntu ahlumu. Kullu shay' uaqa'i
)

So che abbandono me stesso...
e m'involo. Sarò ciò che diventerò
nell'ultimo firmamento. E ogni cosa è bianca,
il mare sospeso sul tetto di una bianca nube
e bianco il nulla nel cielo bianco dell'assoluto.
Sono e non sono stato. E sono solo, sul limitare
di questa bianca eternità. Giunto prima della mia ora,
non un angelo è apparso per dirmi:
"Che cos'hai fatto, laggiù, sulla terra?".


E non ho udito l'esultanza dei giusti,
né il lamento dei peccatori. Sono solo, nel biancore,
solo...
Nulla mi addolora sulla soglia della resurrezione,
non il tempo né i sentimenti.
Non sento la leggerezza delle cose né il peso dei tormenti. Non trovo a chi domandare:
Dov'è, ora, il mio dove? Dov'è la città dei morti e io, dove sono? Non c'è il nulla,
qui, nel non-qui... nel non-tempo,
e non c'è esistenza.

Come se fossi già morto prima d'ora...
So cos'è questa visione, so che
sto andando verso l'ignoto. Forse
in qualche luogo continuo a esser vivo
e so ciò che voglio...

Un giorno sarò ciò che voglio.

(sa'sir yuman ma uridu)

Un giorno sarò un'idea. Nessuna spada la porterà
alla terra desolata, nessun libro...
Come pioggia su una montagna spaccata
allo spuntare di un filo d'erba,
non vincerà la forza
né la giustizia smarrita.

Un giorno sarò ciò che voglio.

Un giorno sarò uccello, dal nulla trarrò
la mia esistenza. Ogni volta che le ali bruciano
avvicino la verità, rinasco dalla cenere. Sono il dialogo
dei sognatori, ho rinunciato al corpo e a me stesso
per completare il primo viaggio verso
il significato, che mi ha bruciato dileguandosi.
Sono l'assenza. Sono il celeste
fuggiasco.

Un giorno sarò ciò che voglio.

(Mahmoud Darwish, Murale, epoché, pp. 9-11, trad. Fawzi ad-Delmi. foto, Mahdyia, Tunisia, agosto 2006. I versi saranno gradualmente affiancati dalla versione originale traslitterata, per il piacere del suono)

giovedì 7 giugno 2007

è finita...
























Il contenuto di questo post è stato eliminato venerdì 8 giugno alle ore 23.08 del meridiano di Greenwich.

mercoledì 6 giugno 2007

leggo Bhabha che legge Adrienne Rich

"The poet Adrienne Rich explores the kernel and substance of global minorities in Atlas of the difficult world (1991), one of the most striking poems dealing with the contemporary cosmopolitical world. Rich takes a global measure - a measure that is both moral and poetic - by decentering the place from which she speaks, and the location in which she lives. There is no ventriloquism or victimage here; non consensual cartography. Rich's resistance to such facile forms of identification and resolution comes from the relentless, repetitive power of her verse to reveal the profound "unsatisfaction" that dwells in our "shared" history of human civilization and barbarism. Anxiety links us to the memory of the past while we struggle to choose a path through the ambiguous history of the present. Such a restless apprehension about who one is - as an individual, a group or a community - and the complexities of forming a global perspective, are beautifully evoked in these few lines:



Memory says, want to do it right? Don't count on me...
I'm a canal in Europe where bodies are floating
I'm a mass grave I'm the life that returns
I'm a table set with room for the Stranger
I'm a field with corners left for the landless
I'm a man-child praising God he's a Man,
I'm a woman who sells for a boat ticket.
(...)
I'm an immigrant tailor who says A coat
Is not a piece of cloth only
..........................................
I've dreamed of Zion I've dreamed of world revolution
I'm a corpse dredged from a canal in Berlin
A river in Mississippi. I am a woman standing
I am standing here in your poem: Unsatisfied.


The insistent repetition of the phrase - "I'm a/I'm a... I'm - as in some bleak counting song of a monstrous child of our times, finds itself both implicated in the traumatic events of global histories - slavery, war, migration, diaspora, peasant ribellions, revolution - and yet unsatisfied in its attempt to imagine how might stage a relationship to a world rendered restless by its transhistorical memories. Each line contains its own encrypted narrative: Rosa Luxenbourg may be the corpse dredged from the Landswehr canal in Berlin; the civil rights moment of the American South is invoked in the burning Mississippi. Rich struggles to find a way of establishing a narrative of human interest, in the sense that Arendt gives to the term: an exploration of what lies in-between (inter-est) these distinct, even disjunct moments that allow them to become affiliated with one another in the spirit of a "right to difference in equality". The repeated phrase - I am - a table... a field ... a man-child... a woman ... an immigrant"- does not seek to establish the sovereignty of a "representative" world-subject who can speak for all peoples.
In keeping with the spirit of the "right to narrate" as a means to achieving our own national or communal identity in a global world, demands that we revise our sense of symbolic citizenship, our myths or belonging, by identifying ourselves with the "starting-points" of other national and international histories and geographies, It is by placing herself at the intersections (and in the interstices) of these narratives that Rich emphasizes the importance of historical and cultural re-visioning: the process of being subject to, or the subject of, a particular history "of one's own" - a local history - leaves the poet unsatisfied and anxious about who she is, or what her community can be, in the larger flow of a transnational history. (...)
Citizenship as "standing" is testimony to her insistence that as active citizens we must vigilantly guard against the state's strategies of exclusion and discrimination in the midst of its promises of formal equality and procedural democracy".

I am a woman standing here, unsatisfied.

(Homi Bhabha, The location of culture, Routledge, New York, 1996: xix-xxi; foto: "Mappamondo" da Luna-Pac di Luigi Serafini, fino al 17 giugno al Pac di Milano).

domenica 3 giugno 2007

Il mondo nella mente

Quando sono andata a comprare Il mondo nella mente (Marsilio, pp. 190, 12 euro) alla libreria Cortina di Milano, vicino alla Statale, l’addetto non ricordava bene il libro, e poi me ne ha spiegato il perché: era “vecchio”. Eppure era uscito da soli sei mesi. Questa frase è un indizio molto eloquente sui ritmi forsennati dell’editoria italiana, sul mercato del libro e anche su una certa mentalità diffusa di concepire il prodotto libro. Ma ho citato questa frase per dire che il libro di Mario Galzigna è invece molto “giovane”, poiché nelle sue dense pagine riesce a mettere in campo tutta una serie di questioni che mostrano la fluidità attuale del campo dell’investigazione teorica psichiatrica e della ricerca neurologica, con tutta una serie di prefigurazioni che potrebbero portare per alcuni aspetti cruciali nella clinica importanti modificazioni nel modo di concepire e praticare la psicoterapia in senso ampio, con prospettive allargate e alleanze disciplinari tra psicoanalisi e neuroscienze. Svariati gli argomenti di riflessione, che rendono conto della mobilità e della molteplicità di interessi, prospettive e paradigmi dell’autore. Si parte dalle ragioni della messa in campo di una prospettiva relativista, dall’asserzione dell’importanza dell’esperienza, ci si spinge a investigare sulle finestre che la rete offre allo psiconauta per conoscere processi mentali che altrimenti sarebbe difficile svelare, a descrivere i vantaggi che la comunicazione on line può offrire a chi si occupa di cura del disagio mentale, con la sua rapidità e la freschezza dei dati che vengono fatti circolare.
La parte che più mi ha interessata personalmente è quella epistemologica. Vi scorgo infatti un fertile terreno per una serie di riflessioni che sconfinano dal campo disciplinare in cui sono pensate, e che possono contribuire a un dialogo interdisciplinare tra coloro che hanno esigenza di muoversi tra il campo dell’esperienza e quello di un ritorno virtuoso alla riflessione teorica, per la messa a punto di metodi sempre più efficaci e arricchenti di dialogo. Oltre che una serie di riflessioni sull’epistemologia della cura vi si possono scorgere anche una serie di indicazioni e questioni su una epistemologia dell’incontro, quando questo incontro è inteso come relazione intersoggettiva, sottesa da un’intenzionalità, cioè dall’intenzione di appropriarsi di un senso, di raccogliere storie di vita, e/o da un’intenzione di prendersi cura nel suo senso più ampio. Per fare qualche esempio, non casuale perché già presente allo stesso autore, credo che vi possano essere fruttuosi intrecci con l’epistemologia e la metodologia dell’antropologia, o con alcune visioni sia teoriche che emiche del prendersi cura nell’ambito dell’infermieristica. D’altra parte il tentativo annunciato da Galzigna è quello di costituire quella che viene provvisoriamente definita come un’epistemologia della connessione e del dialogo. Qui credo possano costituire utile riferimento i lavori sul dialogo antropologico, e d’altra parte il lavoro dello psichiatra, come quello dell’antropologo, come quello di chiunque voglia farsi frontiera, è quello di operare connessioni, o anche rintracciarle, laddove spesso il lavoro è di co-costruzione di significati con gli interlocutori che sovente rinvengono e/o costituiscono connessioni-ponte per un dialogo, che arricchisce di strumenti interpretativi e operativi tutti i partecipanti.
Galzigna per primo è propenso ad un lavoro interdisciplinare ricco, che attinge anche alla letteratura oltre che alla filosofia, e nell’ambito di questo a utilizzare concetti presi dall’antropologia, oltre che ad avvertire l’esigenza più specifica di rapportarsi con l’etnopsichiatria. Ed è intento alla “costruzione di un’epistemologia analitica e storica, che funzioni sia come componente interna alle teorie e alle pratiche scientifiche, sia come consapevolezza critica della loro intrinseca appartenenza a un contesto più ampio di relazioni, sia infine come capacità di collegarle tra di loro, assumendo come praticabile la strada del confronto e della traduzione” (p. 34). Questo significa, usando la terminologia di Yehuda Elkana, rifiutare una “ragione epistemica” reificata, preferendole una “ragione inventiva” attenta ai contesti, che utilizzi quella stessa thick description messa in campo da Ryle e metodologicamente invocata da Clifford Geertz, una destratificazione di significati, che consenta di intravedere connessioni tra quelle “ragnatele di significati” pubblici e agiti che costituiscono la culture altre, seguita poi da una traduzione. E che nel caso di Galzigna è piegata al compito di stabilire connessioni tra teorie scientifiche, culture e pratiche discorsive, contestualizzandole all’interno di una Weltanschauung o di un Lebenswelt, da un lato rendendoli traducibili, dall’altro conferendo (sulla scia di Elkana) un peso determinante alla scoperta nel contesto di un’esperienza (p. 37).
Questo porta alla preferenza del metodo induttivo rispetto a quello deduttivo-normativo, e qui entra in gioco il ruolo dell’esperienza, che tutte le scienze “destinate a intervenire attivamente sull’uomo (…) non possono permettersi di ignorare” (p. 44), e che viene assunta non solo a vincolo epistemologico in quanto luogo privilegiato della costruzione teorica, ma anche ad istanza etica, tenendo conto al tempo stesso del valore storico delle teorie scientifiche. Si verrebbe così ad operare una crescente approssimazione delle scienze mediche alle scienze umane, consentendo ulteriori e articolati confronti tra paradigmi epistemologici, teorici e metodologici. L’esperienza ha poi preferibilmente da essere interpretata con un taglio narrativo che è considerato centrale, e che così come accade in antropologia consente di inserire l’orizzonte biografico del soggetto in una serie di concettualizzazioni di ordine più generale (la storia clinica, un’analisi socio-antropologica), senza quindi dissolverne la specificità, rendendolo replica seriale di un sistema classificatorio, culturale o nosografico che sia. Il riferimento alla Daseinanalyse binswangeriana è qui d’obbligo. E considerando la narrazione sempre aperta, e anzi, rendendo possibile attraverso il percorso di vita un continuo ripensamento e riaggiustamento teorico e concettuale ma anche esistenziale, che la sofferenza psichica può essere concepita non in modo reificante, come condizione irreversibile del soggetto sofferente, ma come prodotto della sua storia di vita, costrutto che può essere decostruito dal lavoro congiunto dell’analista e dell’analizzato, in un processo dinamico nel quale la stessa diagnosi è quindi soggetta a riformulazioni. Secondo me qui si pone però la questione del come si rende la storia di vita del soggetto. Se è uno sguardo esterno che la racconta, non vi sarà la sovrapposizione di un filtro alla sua storia? E’ utile anche restituire il senso della storia di vita nello sguardo e nelle parole, nel senso dell’esperienza che la narrazione sostituisce nello stesso soggetto narrante? Come può l’analista (al pari di ogni story-taker) verificare che la sua interpretazione della biografia sia aderente alla narrazione prodotta dal soggetto? Come può motivare le discrepanze di interpretazione che in parte “forzano” l’interpretazione della narrazione da parte dello stesso analizzato, portando ad assumere un diverso sguardo su di sé? Una ulteriore delucidazione della questione consentirebbe da una parte di offrire una visione maggiormente chiara al lettore, dall’altra offrirebbe un contributo ad un’analisi della funzione del racconto di vita in ambito di cura, e d’altra parte credo che questa interrogazione possa essere ricompresa nel questionamento di Galzigna a proposito della possibilità di un’alleanza meno sbilanciata sul piano dei rapporti di potere tra analizzante e analizzato.
L’esigenza di una complementarietà tra sapere e rapporto affettivo, tra intellectus e affectus, che implicano ascolto, e accoglimento dell’altro, coincide in parte con quella risonanza messa in campo dall’antropologa Unni Wikan, e cioè la comprensione delle emozioni degli interlocutori di fronte ai quali il soggetto provvisto di intenzionalità, in questo caso non mirata alla scrittura ma ad un agire dialogico nei confronti del soggetto, la cui minima conseguenza sarà un ascolto attivo che consente l’apertura dell’interlocutore alla narrazione di sé.
Questo richiede da parte del soggetto portatore di intenzionalità o di cura una competenza metacognitiva, che consenta, come si dice in antropologia, un’osservazione della partecipazione del soggetto osservante che lo ricomprenda, quindi la capacità di osservare le categorie, le mosse, le azioni e reazioni da lui stesso messe in campo, le modalità del suo coinvolgimento cognitivo e affettivo, e che renda questo processo nel testo che eventualmente farà seguito all’esperienza della relazione intersoggettiva. L’osservatore-interlocutore-ricercatore non può infatti dimenticare che, divenendo parte del contesto, questo lo influenza e innesca delle reazioni.
Perché ciò avvenga, lo psicoterapeuta, come l’antropologo e come figure di cura che debbono compiere un percorso cognitivo che li porta alla comprensione del soggetto che hanno di fronte, deve cercare di sospendere quanto più possibile i propri schemi cognitivi e valoriali, proprio a fini cognitivi e di accoglienza dell’altro, praticando una sospensione del giudizio. Si tratta, in tutti i casi, di “un’apertura esistenziale all’alterità”, che contempla un approccio relativista, riconoscendo una “pluralità degli assetti di verità”, che non conduca ad un’indifferenza morale – De Martino diceva che “non possiamo non prendere posizione”, e Geertz sosteneva che nessuno è completamente svincolato da “visioni provinciali” - ma che costituisca un necessario approccio metodologico alla comprensione dell’oggetto di investigazione, dal momento che la sospensione delle categorie consente il processo cognitivo mediante la creazione nella coscienza osservativa di uno spazio pronto ad accogliere, registrare e analizzare nozioni e fenomeni nuovi, nella qualità di fatti empirici relativi allo statuto dell’altro, e con essi la sua specifica domanda di cura.
Il richiamo è quindi ad una psicoterapia come sapere che costituisce, al pari dell’antropologia, ma anche di ogni mossa relazionale di tipo intenzionale, ipotesi che siano sempre potenzialmente considerabili come rivedibili, in quanto legate ad una relazione di continua modificazione reciproca delle posizioni assunte rispetto all’interlocutore. Nel caso della psicoterapia si tratterà di una serie di nuovi comportamenti e dati prodotti dall’analizzato, ma potrebbe anche trattarsi di nuove memorie riattivate, di nuove narrazioni, o più semplicemente di risposte in senso dialogico. Quello che Galzigna indica come un “far parlare l’altro”, che nel dialogo significa far parlare la pluralità di voci che compongono i Sé degli interlocutori, costituiti di storie e culture plurali, di molteplicità e di ibridazione. E qui sta uno dei punti nodali dell’interlocuzione in cui uno story-taker assume una parte attiva nel suo farsi ascoltatore, e talora nel restituire il racconto. La narrazione consente di rivelare i molteplici Sé di un soggetto, da un lato “riappacificandoli” e integrandoli, dall’altro dando modo allo psicoterapeuta di coglierli e mostrarli al narratore, costituendo possibilità di cura.
Alla sospensione delle categorie fa da contraltare la consapevolezza di quali siano le categorie messe in campo, che nel caso dell’analista consisterà nell’autoanalisi, e nel caso dell’antropologo nella socioanalisi proposta da Pierre Bourdieu. Ma chi scrive crede che i due tipi di analisi debbano intersecarsi, in modo da arricchire la consapevolezza dell’osservatore- interlocutore. Nel caso dell’antropologo, l’autoanalisi lo può sorreggere in situazioni di fieldwork in cui anche il suo retroterra culturale e sociale, le sue componenti psicologiche ed emotive sono messe in gioco. Nel caso dello psicoterapeuta, proprio perché egli privilegerà una lettura biografica, storica ed esistenziale del percorso del paziente o analizzato, tenendo conto della fluidità, della variabilità storica e diacronica delle categorie nosografiche, è importante che egli stesso sia consapevole della sua traiettoria biografica, professionale e sociale, allo scopo di praticare quell’epoché che lo conduce al relativismo.
L’idea di concetti nosografici dai confini fluidi mi sembra andare nella direzione di quelle classificazioni politetiche teorizzate da Needham, taxa dal perimetro sfrangiato che non si sovrappongono esattamente, piuttosto sono uniti da alcune ricorrenze comuni, e si richiamano, nell’interpretazione di Remotti, alle somiglianze di famiglia witttgensteiniane, intrecci e sovrapposizioni di fili. E in modo simile al metodo antropologico anche Galzigna propugna una continua riflessione della psichiatria sulle categorie messe in campo e una loro storicizzazione, che si traduce a sua volta in un ripensamento critico sulle categorie utilizzate per inquadrare cognitivamente l’altro, la cui caratterizzazione psichica, allo stesso modo di quella culturale, diviene fluida e dinamica, venendo sottratta alla sua identificazione con l’intero vissuto con il soggetto, alla sua essenzializzazione e reificazione, alla sua immutabile permanenza.
Un altro intreccio disciplinare viene dalla proposta di Mario Galzigna di utilizzare la Clinical Ethnography come metodologia utile a investigare le epistemologie e le pratiche della psichiatria e della psicoanalisi, investigando la dimensione sociale e storico-antropologica della cura, mettendone in luce gli assetti concettuali, le costellazioni valoriali ed epistemiche che configurano le discipline, e le istituzioni all’interno delle quali esse operano, come “sistemi culturali”, le fratture e le mancate integrazioni tra approccio psicoanalitico e psichiatrico, in modo da “stimolare una loro continua interazione”, e forse anche da osservare sul campo frontiere e ponti che gli operatori di cura costituiscono tra le due discipline. L’osservazione di campo andrebbe così ad ampliare il suo ambito di azione rispetto a quello già consolidato dell’antropologia medica, estendendo la portata degli strumenti teorici e metodologici che vi sono utilizzati.
Un’altra riflessione potenzialmente apportatrice di innovazioni profonde nel campo della psicoterapia riguarda l’intreccio tra potere e sapere nella relazione tra curante e curato, insediatosi nell’asimmetria del loro rapporto e nell’attuale strutturazione del setting. La questione, perlomeno in un ambito più ampio, non è nuova. In etnografia, attività esercitata da story-takers, si tende sempre di più ad una co-costruzione di significati e ad una negoziazione del dialogo e dell’interpretazione, così come ad una continua negoziazione delle reciproche posizioni degli attori, che vede l’etnografo come attore tra gli attori, persona che diviene ponte e frontiera e parte del contesto, almeno fino a quando il suo sapere non torna ad intrecciarsi con il potere tra le musa universitarie. L’infermieristica si pone da tempo come funzione di cura e servizio verso un curato la cui alterità è data per implicita, e verso il quale la negoziazione è funzione della cura. E molto altro vi potrebbe essere da dire sulla funzione di cura esercitata dall’ascolto attivo degli infermieri.
Galzigna propone, rifacendosi sia al rapporto permeato di reciprocità di Groddeck e Ferenczi, che alla schizoanalisi di Deleuze e Guattari, di pensare ad un nuovo rapporto “permeato di reciprocità analitica”, nel quale il soggetto curante non sia più il solo “supposto sapere”, né i comportamenti del curato vadano necessariamente incanalati entro la logica del transfert, ma “entrambi i protagonisti della relazione hanno accesso alla verità” e sono “soggetti conoscenti” (pp. 104-105), entrambi sono trasformati dalla relazione. Trasformazione che per il curante significa un “rinnovamento spirituale”, espressione che per Galzigna sembrerebbe indicare “una metamorfosi continua del soggetto conoscente” che, mediante una “conoscenza riflessiva”, diviene un “viaggiatore di frontiera”, un “momento etico” e “istanza trasformativa” (ma forse potrebbero scaturirne più ricche e articolate implicazioni), inserita in una cosmoanalisi che sconfini dalla triangolazione edipica introducendo nella cura ambiente, storia e mondo del soggetto.
Galzigna non esita a ricorrere alle fonti, alle teorie dei padri fondatori della clinica psichiatrica moderna, quando trova insoddisfacenti le categorie nosografiche attuali o trova comunque che vi siano messe appunto concettuali ancora proficue relativamente a problematiche presenti. Nel confrontarsi con la questione della vulnerabilità dei soggetti, che è storicizzabile, include un orizzonte esistenziale vasto che va al di là del lasso temporale della malattia, e dipende da fattori esterni o interni, Galzigna torna alla concezione di Esquirol, allievo di Philippe Pinel, e per il quale “la follia (…) non è quasi mai totale e non annichilisce quasi mai interamente la ragione umana”. Nemmeno il delirio, dunque, è totale. Oppure, può esistere una mania senza delirio, che lascia sufficientemente integre le capacità intellettive. In entrambi i casi, dunque, si può fare appello alla ragione del soggetto ai fini della cura. In questo caso vi sono le basi per una dimensione umana comune, uno spazio di significati condivisi, che consenta una relazione e un processo empatico tra paziente e terapeuta. Come già teorizzato in antropologia medica da Byron Good, il curante e il curato diventano compartecipi di una narrazione che si fonda nel passato e si apre su di una serie di possibili futuri.
Un altro aggancio mi sembra di intravederlo nella questione dell’agency del soggetto, della sua capacità di attivazione di risorse di autodeterminazione. La questione della multidimensionalità del soggetto, tra “costituente” e “costituito”, tra “struttura”, o “disciplina”; e agency, o tattiche, per utilizzare un termine certiano. Tale questione costituisce per Galzigna una “contraddizione fertile” e un’ “aporia produttiva”.
Un altro elemento interessante, infine, è quello dell’utilità per lo scienziato sociale del vasto scenario socio-culturale rappresentato dalla comunicazione in rete. Per lo psicoterapeuta o per l’epistemologo la navigazione in rete è utile in vari modi. Il dibattito in rete può contribuire a metter maggiormente in evidenza la fluidità, variabilità e irregolarità dei concetti, in una modalità caratterizzata da immediatezza comunicativa, “più vicina alle modalità della conversazione informale, e quindi alla concretezza dell’evento: cioè all’esperienza quotidiana, alle pratiche e al vissuto degli operatori e dei pazienti” (p.64), lasciando sospese le attribuzioni di categorie psichiatriche e privilegiando la prospettiva della storia di vita del paziente rispetto alla sua storia clinica. E rendendo forse quindi più facile anche al lettore non specializzato l’accesso al mondo della cura psichiatrica nella sua immediatezza e al di là degli stereotipi, contribuendo a sfatare alcuni luoghi comuni, a patto che queste discussioni siano rese pubbliche. Penso, tra le altre cose, all’aprioristica fobia dello psicofarmaco, considerato nel senso comune come un intruso che toglie capacità di volizione al soggetto e ne ottunde le facoltà cognitive, “cancellandone” la personalità. Alla stigmatizzazione sociale di chi assume psicofarmaci, per il quale è stato coniato il neologismo di “psichiatrico”, e che spesso vive con un senso di vergogna la sua condizione, il che certamente non contribuisce al benessere di un soggetto in stato di vulnerabilità, né all’efficacia della cura, mirata a ridare al curato il pieno possesso della sua capacità di esserci nel mondo. Ma penso anche alla “repulsione” che molte persone hanno nei confronti della possibilità di entrare in analisi – e la rete è un’altra finestra di osservazione di questo fenomeno. Il contributo di Galzigna è quello di porre l’attenzione sul circolo virtuoso innescato dalla cura farmacologia e dalla psicoanalisi, lì dove sia il farmaco che la parola sono in grado di “modificare le connessioni sinaptiche in particolari circuiti cerebrali” (p. 89), agendo sulle modificazioni negative apportate dalla sofferenza psichica, e che quella sofferenza possono riprodurre e perpetuare. Ma volgendo uno sguardo complesso a questo fenomeno che attraversa linguaggi e visioni del mondo, che si volge all’insegnamento Zen come alla letteratura, usando metafore che “trasportano” il lettore nell’idea altrettanto bene di quanto non possa farlo una concettualizzazione analitica. La “maturità personale” è un “viaggio negli abissi dell’Io”, una “discesa agli inferi dei desideri denegati o rimossi” che ci si porta dietro dall’infanzia (p. 148-9). Un viaggio alla fine del quale il soggetto, nella sua molteplicità armonicamente reintegrata e ricomposta, potrà essere metaforicamente definito dall’Aleph borgesiano, microcosmo che può ricomprendere e accogliere il macrocosmo, curato che trasforma la cura di sé in una possibilità di cura per l’altro, essendo-ci nel mondo in una rinnovata e fruttuosa alleanza, e riaprendosi al processo di divenire che si era bloccato, chiudendo l’orizzonte del futuro.
L’alterità psicologica e l’alterità culturale, presenti sia nell’ “osservante” che nell’ “osservato”, mi si consentano questi termini forse un po’ sgradevoli ma che uso qui in senso meramente indicativo, si ricompongono nella conclusione di Galzigna. Il lavoro sull’alterità propria e altrui, nell’antropologo come nello psicologo, che agiscono entrambi sullo sfondo di una contemporaneità fatta di globalizzazione, flussi di idee e persone, multiculturalità, devono porsi anche la finalità etica di contrastare i processi di omogeneizzazione e standardizzazione, lavorando a favore del rafforzamento del soggetto nell’abitare la molteplicità che lo costituisce. Accettando e prendendo in carico la propria alterità, il terapeuta - ma penso anche ai molti soggetti che innescano un dialogo intenzionale - potrà ospitare l’altrui alterità facendosi carico delle sofferenze che vi sono legate, che si tratti di una frammentazione dell’Io, di uno vacillare del senso dell’Io nel mondo che ha luogo nella malattia, ma anche dello smarrirsi nella mobilità tra due mondi che è propria dei migranti. Tutto questo non può esistere senza una forte tensione etica impregnata di affectus. Perché lo sporgersi verso l’altro qui non si limita a una serie di mosse pratiche e cognitive, ma diviene “proiezione amorosa”, “altruismo”, sfondo di ogni dialogo nel quale non ci sia solo appropriazione ma anche restituzione, scambio, dono, prendersi cura.

film à ne pas rater

  • Come l'ombra, Marina Spada
  • el-Jenna alan, Paradise now, Hany Abu-Assad
  • Il segreto di Esma, Jasmila Zbanic
  • Inland Empire, David Lynch
  • La vita segreta delle parole, Isabelle Coixet
  • Mille miglia lontano, Zhang Ymou
  • Rosetta, Jean-Pierre e Luc Dardenne

letture

  • Amitav Ghosh, circostanze incendiarie, Neri Pozza
  • Aminatta Forna, Le pietre degli avi, Feltrinelli
  • Studio Azzurro. Videoambienti, ambienti sensibili
  • Rick Moody, I rabdomanti, Bompiani
  • Claire Castillon, Veleno, Bompiani
  • Werewere Liking, La memoria amputata, BCD editore
  • Antonio Pascale, La manutenzione degli affetti, Einaudi
  • Simon Ings, Il peso dei numeri, Il Saggiatore

ascolti dalla a alla zebda

  • Aida Nadeem, Out of Baghdad
  • Alessandro Scarlatti, Giovanni Bononcini, "Andate, o miei sospiri"
  • Amine e Hamza M'Rahi, Asfar
  • David Sylvian, Nine horses
  • David Sylvian, tutto
  • Diego Ortiz, Ad Vesperas, Cantar Lontano
  • Domenico Gabrielli, Opera completa per violoncello
  • Emanuela Galli, Gabriele Palomba, Franco Pavan, Languir me fault
  • Eric Truffaz, Mounir Trudi, Face-à-face
  • François Couperin, Leçons de Ténèbres
  • Gianmaria Testa, Extra-muros
  • Henry Purcell, Fantazias, Rose Consort of viols
  • Hildegard von Bingen, Canti estatici
  • J.S. Bach, Soprano Cantatas, Cappella Istropolitana
  • Japan, tutto
  • Marc Antoine Charpentier, Salve Regina
  • Marin Marais, Pièces à deux violes 1686
  • Mario Biondi (essì, Mario Biondi)
  • Paolo Conte, Elegia
  • Ray Lema, Mizila
  • Rose consort of viols, Elizabethan songs and consort music
  • Sonia M'Barek, Tawchih
  • Vengeance du rap tunisien
  • Violent femmes, Violent femmes (purissima goduria)
  • Zebda, Essence ordinaire

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