Una conclusione Amara
Di solito a me, i libri, mi piace leggerli ad almeno un anno dalla loro uscita, quando luci e clamori non ci sono più, per affrontare un testo a mente sgombera da altre parole, che ne filtrino la lettura. Così è stato per Amara Lakhous, scrittore algerino, dottorando in antropologia almeno all'epoca della pubblicazione del suo libro, che parla un italiano pressoché perfetto. A Torino ho comprato il suo "Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio" (e/o). Perché volevo capire cosa ne fa un antropologo dei suoi strumenti cognitivi quando scrive un romanzo. E l'ho capito, lentamente, sorprendendomi per l'abilità di depistaggio dello scrittore, per la complessità del testo che si sfoglia capitolo dopo capitolo, strato dopo strato, rivelandosi solo alla fine nella sua pregnanza.
Ora, Lakhous ha vinto un premio Flaiano per questo libro, che è stato molto pubblicizzato come "gaddiano", per il linguaggio e per la cornice polifonica. E io mi chiedo, definire come gaddiano questo libro ci dice qualcosa, tutto su di esso, ci aiuta a comprenderne la specificità, oppure c'è bisogno di altri strumenti, che non siano meramente quelli dell'analisi letteraria, per trarne fuori, comprenderne e comunicarne, la specificità? In effetti, io di linguaggio gaddiano ne ho trovato poco. Poche e scarne parole o espressioni in dialetto, niente a vedere con l'invenzione letteraria di una lingua, anche se per certi versi la struttura del testo, la resa dei personaggi rimandano al Gadda del "Pasticciaccio"
Quello che trovo peculiare di questo romanzo è il suo girare attorno ad una questione focale, avvicinandosi al nucleo come per cerchi concentrici, e allo stesso tempo scendendo in profondità, dalle apparenze superficiali a ciò che di più sepolto vi è nel protagonista, Amedeo. Scoperta che procede di pari passo con la mutazione del registro linguistico, da umoristico a drammatico.
Fin dall'inizio sappiamo che un tale chiamato Amedeo è accusato di omicidio. Ci ragiona su tutta una galleria di condomini che conosce Amedeo, e che tira in ballo al tempo stesso una serie di stereotipi sull'altro e alcuni lampi illuminanti sulla sua storia personale. L'iraniano Parvez, rifugiato, alcoolizzato, che odia la pizza e la pasta, che a suo dire fa ingrassare, e la cui mente va con orgoglio al natìo riso, filo che lo lega strettamente alle sue origini. L'impicciona portiera napoletana Benedetta, piena di stereotipi nei confronti degli stranieri, e devo dire che mi piace che sia una napoletana ad essere razzista, perché sono piuttosto avversa allo stereotipo positivo, quasi da buon selvaggio, del napoletano sempre accogliente e ospitale. Per Benedetta l'assassino è un immigrato. E tutti gli immigrati si confondono in un calderone. Parvez è per lei albanese, mangia gatti e cani, forse il colpevole è proprio lui.
Com'è l'Amedeo che esce fuori dalle descrizioni dei personaggi del condominio? Parla perfettamente l'italiano, senza accento. E' sempre gentile con la portiera, altruista e servizievole con gli altri immigrati, non fa domande inopportune e grossolane sull'Islam. Non si è mai lamentato del cane Valentino, per il quale Elisabetta nutriva un amore morboso, e che è stato barbaramente ucciso da ignoti. E' italiano, sposato con un'italiana,insomma, e non un immigrato, quindi un potenziale criminale. E' l'inquilino migliore del condominio, quello che non parla mai male di nessuno, prova compassione e comprensione per i problemi di tutti. E' un lavoratore, il che lo distingue agli occhi di Antonio Marini, condomino settentrionale, da quei fannulloni che sono gli immigrati, e che comportano in tutto e per tutto come i meridionali. Ama cornetto e cappuccino. E poi, conosce la storia romana, in particolare quella dell'Africa romana, Sant'Agostino e il Vangelo. E qui, la vostra antropologa è caduta in una madornale svista, esclamando vittoriosamente dentro di sé "è tunisino!" e gongolando perché convinta di essere tra le poche che a questo punto capivano l'identità di Amedeo. Perché Sant'Agostino è patrimonializzato dai tunisini, che vi stanno dedicando ultimamente molti studi, e lo menzionano nelle guide turistiche come figlio del paese, a causa del suo lungo soggiorno a Cartagine. La mia convinzione si è rafforzata quando ho letto il riferimento di Amedeo a Giugurta, definito "il nostro grande guerriero", dal momento che in Tunisia si trova il luogo dove il re numida fu sconfitto. I capitoli in cui Amedeo parla in prima persona, esprimendo in un lungo ululato tutto il suo smarrimento di fronte alle situazioni problematiche degli altri, si alternano ai racconti dei condomini. Qui, nell'introduzione della memoria storica, avviene una svolta. Si comincia a conoscere qualcosa dell'identità di Amedeo, che consiste nel suo possesso e nella sua interpretazione di una parte di storia antica, comune agli italiani, ma speculare, perché per lui i romani sono stati dei traditori, che hanno fiaccato Giugurta tenendolo a digiuno di acqua e cibo prima di esporlo al Colosseo. Mi sbagliavo. Perché Sant'Agostino è nato vicino ad Annaba, città algerina di confine rispetto alla Tunisia, e anche il territorio di Giugurta si trovava tra i due paesi.
E in effetti, dopo un po' veniamo a sapere che Amedeo si chiama in realtà Ahmed. Ma in realtà a nessuno interessa addentrarsi nel suo passato e nelle sue origini, nemmeno alla moglie Stefania, per la quale Amedeo è il presente, qualcuno per lei, che si è assimilato per lei, e il resto non la riguarda. Ma questa relazione si fonda, paradossalmente, su un tragico equivoco di tipo orientalista, nel quale Amedeo viene confuso con Rodolfo Valentino, con romantici stereotipi desertici, "misterioso come il Sahara". Una porzione di Oriente inconoscibile, tra stereotipi e assimilazione/fagocitamento. E in fondo, anche Amedeo vuole prendere le distanze dal passato, che si rifà presente nei suoi incubi, e appare dolorosamente solo alla fine, nel racconto del suo amico Abdallah. Il passato di Ahmed si chiama Bàgia, la sua fidanzata algerina, uccisa dai terroristi. Risiede nella nostalgia per il Ramadan, la voce del muezzin, il cuscus, la zlabia, la harira, la voce materna.Amara Lakhous "sfoglia" così, strato dopo strato, l'identità di Ahmed, la cui parte araba non è certo il fondamento roccioso, poiché Ahmed dimostra di poter assimilare altri elementi, arricchendoli, traducendo, attraversando frontiere come un contrabbandiere di beni, e tuttavia è una parte imprescindibile di lui, costitutiva del suo passato, che in fondo a nessuno interessa.E che resta passato che non passa, spada che lo trapassa.
E poi, viene fuori che l'assassina del Gladiatore, vero romano de Roma, era la padrona del cagnolino. Perché, in mezzo a tutti gli immigrati del palazzo, sapiente perfidia dell'autore, era lui quello che pisciava nell'ascensore del condominio, metafora di uno spazio condiviso, stuprando la badante boliviana scambiata per filippina, organizzando combattimenti clandestini di cani.
E io mi sono pentita, di non aver letto prima il libro di Amara Lakhous, variante di 'Umar, Omar, Amor, per poter discutere con lui a Torino di quest'abile storia che prende garbatamente in giro il lettore, rovesciando lo sguardo, prendendo ad oggetto in modo ironico noi, gli italiani. Ma chissà, un giorno forse capiterà. Chi ha letto il suo libro saprà che alla fine c'è la sua mail, amaralakhous@yahoo.it, che mi sembra un gran segno di disponibilità.