Oggi ho concluso un breve corso di antropologia nell'ambito di una laurea per infermieri, dal titolo troppo complesso da citare, e che trattava di infermieristica transculturale, antropologia medica e mgf. In realtà oggi ho fatto poco, a parte la prova finale. Oggi la parola spettava alle infermiere stesse. Nel corso del mio lavoro ho cercato in modo crescente di effettuare le mie analisi cercando di ottenere la maggiore aderenza possibile tra i modelli teorici da me impiegati e le narrazioni e le azioni dei soggetti di cui investigavo pratiche e rappresentazioni, per arrivare ad un processo di co-costruzione delle conclusioni finali, quando possibile. Ammiro molto D., la caposala di un reparto infettivi, che è stata per me una preziosissima interlocutrice e che trovo una donna forte e ammirevole per la qualità e dedizione del suo lavoro. E' stata una delle prime persone a vivere l'ondata dell'Aids, e dopo aver avuto pazienti tossicodipendenti o viados nessuna cosiddetta differenza ormai ai suoi occhi è più di tanto rilevante o ingestibile.
Ma quello che mi interessa soprattutto raccontare è un fenomeno di cui la maggior parte di noi è all'oscuro, e che è stato l'oggetto del racconto di altre due ammirevoli infermiere del reparto pediatrico. Esiste una generazione di bambini nati da madri sieropositive e contagiati anch'essi dal virus, che dopo l'introduzione delle terapie retrovirali, così come le altre persone affette da questo male, ad un certo punto hanno cessato di morire e hanno cominciato ad avere prospettive di vita la cui lunghezza è ancora difficle da calcolare. Sono vivi, fortunatamente. Ma affetti da tutta una serie di problemi mai seriamente studiati, e per i quali poco si può fare perché si tratta di un fenomeno sommerso, ignorato dai media come dall'opinione comune e altrettanto dalle istituzioni. Questi ragazzi e ragazze arrivano fino all'età di 23 anni, ma continuano ad andare al reparto pediatrico, per raccontarsi alle infermiere che talvolta li hanno seguiti fin dalla nascita. Molti di loro hanno perso la madre o i genitori, sono cresciuti con i nonni. Ad ogni modo spesso odiano i genitori per averli contagiati. Mi è stato raccontato che talvolta vanno a sputare o tirar sassi sulle loro tombe. La qualità delle loro relazioni è molto precaria. Se ne hanno, quando si rompono, i partner li attaccano proprio sulla loro malattia spifferandola quanto più possono. Il loro fisico è plasmato in un modo che non racconterò dai medicinali che assumono, e loro ne soffrono. Spesso sviluppano una forte aggressività, tiranneggiano i familiari. Poiché sono malati e la loro prospettiva di vita è indeterminata, è loro dovuto tutto. Sono arrabbiati per ciò che è capitato loro e spesso scelgono di avere rapporti sessuali non protetti. Le infermiere snocciolano dati allarmanti.Ogni tre famiglie estese, dicono, vi è un membro sieropositivo. Sono tra noi, e, come è per certi versi giusto che sia, non ce ne accorgiamo. Mi raccontano anche di una storia quasi da fiction, quella dell'impiegata di uno studio commerciale che ne ha contagiato tutti i soci, avendo una relazione con ognuno di loro all'insaputa degli altri. Il che comporta che ad ognuno di loro sia sempre dato in ospedale un appuntamento in orari diversi. Chi aiuta questi ragazzi, chi contiene la loro immensa sofferenza, la loro distruttiva rabbia? Le infermiere danno loro il proprio numero di cellulare, ne sono le confidenti, a volte danno consigli persino alle psicologhe. V. in particolare ha una qualità di comunicazione non verbale tale da spingere le persone a raccontarle la loro vita, a diventarle amiche fin dai primissimi momenti del primo incontro, mentre con altre basta l'esitazione di un gesto per chiudere fermamente i loro cuori. V. ha una mano sottile, lunga e nodosa e una stretta d'acciaio. Queste donne devono ogni giorno, tra le altre cose, vedersela con l'arroganza di medici e infermieri, che si permettono ad esempio di sedersi sui tavoli delle infermiere o sulle loro sedie a gambe alzate. R. ne ha intercettato uno che parlava al cellulare raccontando reiteratamente, davanti ad una bambina ricoverata, a intercalari di cazzo e figa, quanto fosse figo in camice su Internet. La bambina sghignazzava, e quando R. l'ha invitato a moderare i toni, lui prima ha continuato a ripetere che non aveva fatto nulla di male, poi ha continuato a insultarla per una buona pezza, anche quando lei si è allontanata. Queste sono le donne che ammiro, le donne al cui fianco voglio impegnarmi, idealmente o fattualmente. Queste sono tra le persone di cui voglio raccontare la storia. Ci sono storie che mi battono in petto, che mi chiedono prepotentemente di uscire. E' un'immagine mentale e una sensazione corporea al tempo stesso che non avevo mai sperimentato, abituata a tenere complesse fila concettuali di analisi e ragionamenti che derivavano ad ogni modo dalla condivisione del mio tempo quotidiano e dall'intessersi di affettività con altre persone. Lì quello che sentivo era più che altro la sensazione di ebbrezza data dalla sensazione della scoperta e dalla velocità del pensiero, dal moltiplicarsi delle connessioni. Mentre mi chiedo cosa mi stia capitando, concludo con il racconto di D., che ha raccontato in modo non privo di spirito di aver messo un preservativo in mano al figlio adolescente perché vi prendesse familiarità. A tutti gli allievi infermieri è stato chiesto di fare il test Hiv con regolare frequenza. Sono questi, loro dicono, gli unici modi per lottare contro la malattia. Ora i bambini di madre sieropositiva diventano negativi ad un anno dalla nascita grazie alle cure prenatali. E' ancora presto per conoscere le evoluzioni del fenomeno. Già dall'anno scorso, quando sono venuta a conoscenza di questi fatti, avverto lo struggimento e l'urgenza che si faccia qualcosa per questa generazione sofferente.