dietro le apparenze
Ieri sono andata a intervistare Marina Litvinenko insieme ad Alex Goldfarb, il dissidente amico di famiglia che ha scritto buona parte del libro "Morte di un dissidente", che in Italia è pubblicato da Longanesi, ed è uscito in Gran Bretagna ad appena sette mesi dalla morte di Aleksandr Litvinenko. Il libro è estremamente interessante per tutta una serie di racconti circostanziati che fanno capire quanto il mondo sia ancora più deteriore della peggiore immagine che se ne possa avere tra traffici sporchi di vario genere e ignoti ai più, soprattutto se, come è vero, due grossi attentati attribuiti ai ceceni, e che hanno fatto centinaia di morti, sono in realtà dovuti ai servizi segreti russi.
Prima di andare, ho letto le interviste a Marina Litvinenko durante il ricovero del marito, dopo la sua morte e in occasione dell'uscita del libro, oltre ai ricordi del loro incontro e del matrimonio. Spesso durante le interviste Marina piangeva, qualche giornalista ha azzardato un gesto di vicinanza umana. Ho visto le foto del marito che hanno fatto il giro del mondo, calvo, svuotato del midollo spinale. E letto ancora della contaminazione di centinaia di persone, di tutta la casa dei Litvinenko, di Marina, del corpo di Aleksandr per i prossimi ventotto anni.
Poi sono andata in albergo, vestita come una Audrey Hepburn con scarpe indiane. Come spesso accade, in questo ambiente ci si abbiglia accuratamente. La traduttrice con il suo twin set marrone e crema, gli orecchini di perle, il medaglione d'argento, il bracciale con i brillanti, il mio collega con il suo completo blu, Marina Litvinenko composta e ineccepibile in blu e argento, Goldfarb in nero, con una maglietta del Sundance festival, in cui un rettangolino rosso si accordava con le stanghette di plastica degli occhiali in montatura d'acciaio, con un effetto cromatico netto e piacevole, accuratissimo e informale. Abbiamo cominciato con una serie di domande caute a Goldfarb, mentre tutta la scena mi comunicava, nella sua compostezza, un'aria di irrealtà, con quell'albergo lindo, i divani bordeaux a motivi di foglie, le sedie in grosse righe colorate, altre poltrone azzurre sullo sfondo, su cui il mio sguardo indugiava, una scena avulsa dal tempo e dal dolore. Prima di cominciare, si parlava con il collega dei treni da Bologna, dove abita, della Fiera del libro d'arte, di registratori e altro, mentre pensavo allo scollamento di tutto questo con i sentimenti delle persone che avevo davanti.
Le ultime domande le abbiamo fatte a Marina. Com'era ora la sua vita, perché aveva deciso di scrivere il libro. Con un senso di pena da parte mia, non riuscivo a guardarla in faccia, non volevo vedere il suo dolore, però l'ho fatto, anche perché lei cercava il mio sguardo. Questa donna si è trovata a lavorare al libro dopo solo un mese dalla morte del marito, costretta a riversare il suo dolore in quelle pagine, e ora non vive che per il figlio. E dopo che il clamore come succede si sarà spento, cosa proverà? Dico quel che provo nel fare quelle domande, il collega mi dice, "io sono più sfacciato". Si fa firmare il libro, lei fa una piega amara con la bocca, io non lo ritengo opportuno. "E ora mi aspetta un'altra intervista", dice il mio collega, e va nell'altra saletta, dove c'è un altro scrittore. Penso alle crudeltà e necessità di questo mestiere, come molti di quelli che fanno sì che le informazioni circolino, e mi interrogo, sull'essere dentro e fuori le cose, e su un modo forse, di vederle da fuori e da dentro.