La settimana scorsa, andando al festival dell'Unità, sito in una delle zone più tristi di Milano, dove si consumano appetitosi piatti sopra e sotto la plastica, e dove si balla rapinosamente il liscio, ho stupidamente perso il cellulare che avevo in tasca prima di scendere dal vagone della metro. Tanto per provare, abbiamo chiamato il numero. Qualcuno ha risposto. Era un immigrato che abitava a poca distanza, ci ha dato l'indirizzo di casa, e ad un certo punto ha arrestato il nostro profluvio di ringraziamenti con un "basta", presentandosi, stringendoci la mano e dicendo "io sono filippino, siamo brave persone, ditelo".
Nei giorni scorsi ho assistito, nel panorama mediatico di carta e di pixel, e con un crescente senso di amarezza e desolazione, al montare di un'ondata xenofoba originata da un episodio risibile, come quello della "repressione" degli assalti dei lavavetri ai semafori, che per una settimana sembrava essere diventato il nodo politico cruciale in Italia. Ognuno, poi, ha detto la sua. Sotto il nebuloso ombrellone concettuale della "sicurezza nelle città" c'è chi ha dato addosso ai Rom, chi alle prostitute, chi agli albanesi, chi ancora dei graffitari e chi ne ha più ne metta. Sindaci e politici si sono affrettati a rassicurare i cittadini promettendo misure rapide e di natura repressiva.
Ora, se ad alcuni esponenti della parte visibile delle istituzioni politiche, membri dell'esecutivo e sindaci, conviene mostrare il volto feroce per contenere lo scontento, quello che non viene invece detto è che da circa dieci anni in Italia si lavora intensamente per favorire l'integrazione innanzitutto economica, e l'accesso a diritti fondamentali di cittadinanza per gli immigrati, come quello alla salute, all'istruzione, all'alloggio. Si è così riusciti a scongiurare il formarsi di ampie sacche di emarginazione e segregazione come si è verificato in Francia o in Gran Bretagna, rendendo l'Italia per molti versi un paese modello in materia d'immigrazione e ibridazione culturale, grazie anche al fatto che il fenomeno ha cominciato ad essere assiduamente monitorato dopo pochi anni dal suo consolidarsi. A tutto questo hanno contribuito funzionari e impiegati delle amministrazioni, ricercatori,educatori, assistenti sociali, insegnanti, volontari, medici e infermieri, formatori, persone che si sono prodigate perché gli immigrati avessero accesso al lavoro, al cibo, ad un tetto, che avessero di che coprirsi, e che i loro figli andassero a scuola, cominciassero a imparare l'italiano, avessero gli stessi diritti di accesso alla società degli altri, acquisissero il permesso di soggiorno per motivi umanitari o lo status di rifugiati, predisponendo metodi di educazione interculturale, oppure creando progetti di formazione nei paesi di accoglienza, o ancora lavorando nelle carceri o prendendosi cura dei minori non accompagnati. Persone che come me hanno accettato cifre risibili per fare ricerca sulle relazioni tra società ospite e immigrati, per capire come intervenire meglio, oppure si sono introdotte nel mondo dell'illegalità per capire cosa succedesse. Un piccolo esercito di persone che hanno costruito, giorno dopo giorno e in modo impercettibile, la pace sociale. Questo soprattutto al nord, anche in seno ad amministrazioni di centrodestra, dove gli immigrati fanno molto comodo perché lavorano in settori dove altrimenti ci sarebbe il deserto: cantieri, mansioni operaie specializzate e generiche, assistenza a bambini ed anziani, lavoro domestico. Questa gente ci sta aiutando e ci è utile, molto, e non bisogna dimenticare che se viene qui è perché è spinta dal bisogno, perché una famiglia intera ha investito su di loro. Se lavorano clandestinamente, i primi responsabili sono i loro datori di lavoro. Devono aiutare le famiglie, e lo fanno ad ogni costo, anche di dormire per strada. Se non trovano lavoro spacciano o ricettano, e poi contribuiscono allo sviluppo di zone depresse dei loro paesi, come succede ad esempio con la regione marocchina di Beni Mellal. Solo che tutto questo quasi non compare sui giornali. La scelta repressiva non è solo quindi contraria alle posizioni etiche dei molti che lavorano per l'integrazione, ma anche pragmaticamente errata, perché apporterebbe solo disagi, conflitti e creerebbe o aggraverebbe le condizioni che dice di voler eliminare. Questo, senza presunzione alcuna, è un parere a cui credo di poter conferire l'autorevolezza della competenza professionale di cui dispongo.
Ho sentito molti in questi giorni esprimere pareri basati su opinioni del tutto personali, e fumosi discorsi mediatici e politici, spesso in malafede e totalmente scollati dallo stato delle cose, senza confrontarsi con quanto è stato verificato e scritto da persone che si occupano in modo assiduo di seguire il fenomeno. Credo che chi abbia voglia di comprenderlo seriamente abbia a disposizione una vasta scelta di titoli per capire realmente quale sia la situazione migratoria in Italia, come vi si sta facendo fronte, e quali sfaccettate e sfumature possano assumere i discorsi stigmatizzanti. Altrimenti sono solo asserzioni vuote di quella sostanza che è data da una disamina complessa e dal confronto con analisi consolidate, come spesso succede nelle manifestazioni di pregiudizio (cioè opinioni che si formano senza elementi per il giudizio), e che possono tuttavia condurre anche se in via indiretta al conflitto sociale. D'altra parte, come aspettarsi una riflessione più pacata da parte dei cittadini quando un Giuliano Amato si consente di bollare dei seri tentativi di riflessione come "sociologia da strapazzo"? Oltre che alla stigmatizzazione in blocco degli stranieri siamo arrivati dunque anche a quella del pensiero?