come l'ombra
Ho conosciuto Marina Spada dapprima dal gusto di una zuppa di piselli, insieme deciso e leggero, che lei aveva preparato da una comune amica dove era stata ospite per qualche tempo, a Roma. Poi, sempre lì, l'ho incontrata, ci siamo incrociate al citofono, e basta guardarla per capire che donna forte, decisa e anticonvenzionale sia. Abbiamo diviso in tre una conversazione animata da una solidarietà femminile, da un comune sentire. Sapevo del suo film, che le mie amiche a contatto con il mondo del cinema mi avevano detto essere bellissimo. Ma ha fatto il giro d'Europa, caricandosi di premi, prima di arrivare a Milano e, presumo, in Italia. Marina ha saputo cogliere con incredibile nitidezza, profondità, aderenza al senso delle vite la solitudine esistenziale di una persona qualunque a Milano, scandita da grigie ritualità, un muoversi tra spazi relazionali e fisici anodini, anomici. Claudia lavora in un'agenzia di viaggi. La sua casa è una casa vera, una delle tante case in cui si può entrare a Milano, anni Quaranta, porte e finestre bianche, stondate, arredo Ikea, un bagno dove con inappuntabile precisione viene appesa alla sbarra della tenda della vasca da bagno la biancheria intima del giorno, il frigo ingombro di cartoline. Ogni mattina il tram, e la serranda dell'agenzia da alzare, e la sera l'inquietante profilo dell'insegna di un'incombente Esselunga di periferia, riflessa talvolta nei vetri, e la spesa nel frigo. La casa dei genitori anziani in una periferia triste, forse case popolari, ritualità familiari, la mamma che prepara il polpettone, la sorella che spera di uscire dalla sua solitudine con un assiduo cliente della banca in cui lavora, magari altrettanto solo anche lui.
L'unico momento di evasione, a parte una scopata occasionale, è rappresentato dal corso di russo. La donna inizia una relazione con il suo insegnante ucraino, Boris, che dovendo partire, dice, per motivi di lavoro le affida una cugina in procinto di arrivare, promettendo che tornerà a prenderla prima delle sue vacanze in Grecia. Claudia, con quella diffidenza al rapporto con il nuovo, all'accoglienza nello spazio privato, che può essere molto milanese, tentenna, poi accetta. Si trova in casa questa ragazza bella e affamata di un mondo nuovo, sperimenta timidamente il piacere di una relazione assidua con un'altra persona, fatta di piccole condivisioni.
Ma la vicenda si complica, sprofonda nell'opacità degli eventi, il viaggio in Grecia viene annullato. Boris sembra difficile da rintracciare, e anche la ragazza scompare. Non voglio raccontare di più, avendo maturato la convinzione che film irrinunciabili come questo vadano visti sapendone il meno possibile, addentrandosi nella storia, vivendola nella progressiva scoperta e totale partecipazione, nello sprofondamento. Molta della bellezza del film è nella sua luce allo stesso tempo tersa e desolata, nei suoi paesaggi urbani fatti di snodi, di muri, di entropia architettonica, respingenti, scorci smembrati da ponteggi. Forte è stata probabilmente l'impronta di Gabriele Basilico, che ha partecipato alla produzione del film insieme alla Kairòs e alla stessa Marina Spada. La bellezza del film risiede anche nell'opacità delle vite di cui lo spettatore sa poco più che la protagonista, e che rimandano sia all'indeterminatezza delle esistenze altrui nelle quali ci imbattiamo, soprattutto se provengono da altri mondi, sia ad un testo narrativo bello perché asciutto, aperto, inconcluso, se non per la sensazione che alla fine la protagonista abbia subito una metamorfosi, sia pronta ad andare anche lei verso un'indeterminatezza dell'esistenza, affrontandola, osando. Alcuni indizi di senso, mai del tutto rivelatori, giacciono in alcuni gesti e scene muti ma eloquenti, nella visita della donna alla casa di Boris, in un palazzo cadente e affollato di immigrati, minuscolo tassello su una persona di cui lei, in fondo, non sa nulla. In una canzone di Laura Pasini, "La solitudine", semplice e immediata chiave di lettura del film, cantata insieme dalle due donne. E nei versi di " A molti" di Anna Achmatova, del 1922, da un libro comprato quasi per caso in libreria, che compaiono dopo la dissolvenza dell'ultima inquadratura: "Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo/ Come vuole la carne separarsi dall’anima/ Così adesso io voglio essere dimenticata".
(in basso su youtube trailers e clips e colonna sonora)
9 commenti:
ma non dovevi riposare? Adesso se non vedrò questo film sarà solo per colpa della mia pigrizia(non avrò scuse).Preferisco pensare che Achmatova, coi suoi pregnanti versi,intendesse perdere ogni riferimento, trovare l'oblio ma per rinascere.Una notte tranquilla D
se non vedi questo film marina spada ti perseguiterà in sogno per i mesi a venire! il problema è che a me sono i film scemi che mi abbattono, questo era talmente bello. Credo che il senso dei versi di Achmatova fosse proprio quello nel film. notte...
avevo commentato ma non lo trovo..
cmq solo per dirti che l'ho visto a settembre scorso a venezia e mi piacque moltissimo
OT per agosto ancora non so :-) vedremo di vederci
dido, pure a venezia te ne vai... se sei entro un raggio di 400 km ti recuperiamo sin duda! :)
Per il momento ho trovato, nei versi di Anna Achmatova abbastanza brividi da dimenticare questa fredda estate che in molti qui fuori dicono già torrida. la solitudine è una parola chiave con la zigrinatura acuminata... Ce n'è abbastanza per fuggire a chiudersi in un cinema con una pietra al collo e lasciarsi catturare da questa Milano da cui mi sento tanto lontana eppure ultimamente così attratta.
Rita, il contrasto acuminato è tra la definizione russa di felicità, che contiene la parola estate, e quest'estate di solitudine, ma i versi della achmatova offrono anche una via d'uscita forse, come il signor D. del primo commento acutamente notava... è la speranza nella disperazione, come dice una filosofa dell'infermieristica che ho tradotto (a proposito, non so nemmeno se è già uscito il libro)
in quanto a Milano, se vuoi fare un salto per constatare di persona, questa casa aspetta a te ;)... abbraccio :))
ah, dimenticavo, io sono più per un'interpretazione "aperta", nel senso di "lasciarsi alle spalle", per il superamento del Sé precedente, che si verifica nel cambiamento, che per l'oblio vero e proprio (non credo tanto nell'oblio come fenomeno benefico).
magari anche oblio come qualcosa che non ha ancora o ha perso un nome ...ma è ancora e solo una discutibilissima (interpretazione)possibilità... ciao daD!)
mi sembra una ipotesi interessante, e aggiungo sul piatto della bilancia: envisioning new possibilities, creating anew, persistent anticipation of contentment, e forse uno shifting possibilities ma nel mio glossarietto parsiano della speranza ora questo non lo trovo...
immaginare narrazioni con nuovi sviluppi come dice Byron Good, indeterminatezza del testo? ci aggiungerei anche queste altre cose... se continuate a sollecitarmi su questo tema vi spedisco la mia traduzione della Parse (!!!! ;), per molti versi l'ho trovata illuminante....
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